i Celti e l’albero di Natale

Ormai l’albero di Natale fa parte della nostra tradizione tanto quanto il presepe, ma se è chiaro cosa quest’ultimo rappresenti, addobbare un abete o un’altra conifera che significato ha?

La storia parte da lontano, dal ricordare la costante sovrapposizione delle feste cristiane a preesistenti feste pagane. E le feste pagane, nelle diverse religioni, sono sempre legate alle forze della natura e ad elementi astronomici.

Così il Natale, che per noi si festeggia il 25 dicembre (data ovviamente fittizia e scelta dalla Chiesa), cade appunto quando i popoli indoeuropei festeggiavano il SOLSTIZIO D’ INVERNO, cioè il momento – che si verifica tra il 21 e il 23 dicembre – in cui il sole raggiunge il punto di declinazione minima nel suo moto apparente lungo l’eclittica, in termini più pratici e più romantici: nella notte più lunga dell’anno, dopo la quale, le giornate ricominciano ad allungarsi.

E’ dunque un culto della luce, della nascita (o rinascita) del sole, fonte di vita per gli uomini.

Anche per i Celti il Natale, YULE, ricorreva il 21 dicembre e corrispondeva col solstizio d’inverno; durante questa festa addobbavano i sempreverdi (simbolo di persistenza della vita nel gelo e nell’oscurità dell’inverno) con frutti, ghirlande e altri doni (simbolo di fertilità).

E mentre faccio queste affascinanti riflessioni penso che il Casetto si trova a pochi chilometri in linea d’aria dal massiccio del monte Bibele di cui fanno parte anche il monte Tamburino e il monte Savino, tra le valli dell’Idice e dello Zena. In queste zone, pochi decenni fa, sono stati scoperti insediamenti risalenti al IV a.C., in particolare il villaggio etrusco/celtico di Pianella di monte Savino, la stipe votiva a Monte Bibele, il sepolcreto di monte Tamburino…

Vi sono dunque tracce certe, testimoniate dai reperti ritrovati in scavi archeologici non ancora del tutto terminati, e costituiti essenzialmente da sepolture nelle quali risalta preponderante l’elemento guerriero, che ci raccontano che questi territori, all’incirca nel 380 a.C., furono abitati da Galli Boi…    ed io me li immagino, in queste terre, danzare e pregare invocando la nascita del Sole bambino ed il ritorno della luce portando la fiamma per riaccendere, dopo il buio, i fuochi rituali, nei boschi di alberi inghirlandati…

la quercia

io ero una ghianda.  caduta da un albero non lontano.  finita in mezzo a zolle di terra tenera, calda e avvolgente.

poi ho messo radici.  sono cresciuta.

il mio tronco si è irrobustito anno dopo anno, mi sono alzata dritta verso il cielo, ho steso le mie dita ad abbracciare la valle, ho riparato l’orto dal sole bollente. mi dicevano che forse stavo esagerando perché l’orto aveva bisogno di quel sole, ma a me sembrava di proteggerlo.  e poi li sentivo quando parlavano di me: troppo bella per tagliarla! quindi ero tranquilla… nessuno mi avrebbe fatto del male.

ero piena di ghiande, tanti figli da spargere e le mie foglie appena ingiallivano in mezzo a questo tiepido autunno.

poi non lo so cosa sia successo.

ha iniziato a nevicare. la neve la conoscevo, negli scorsi anni ogni tanto mi ricopriva.  era gelata ma morbida, e il vestito bianco mi donava.  mi sentivo una regina sul bordo del pendio, di fronte la Torre dell’ Erede, più in fondo il Monte delle Formiche e il Santuario… presenze antiche, amiche, e mi faceva sentire importante il fronteggiarli: loro così immobili, pietra salda nel tempo, io una ballerina nel vento, solida ma anche flessibile. con i miei rami accarezzavo il mondo!

ad un certo punto invece i miei movimenti si sono fatti lenti, mi è venuto freddo. ho avvertito come un peso addosso insostenibile… mi sono sentita schiacciata contro la terra, come se qualcuno volesse farmi rientrare sotto le zolle da cui ero partita…

no, io non mi piego alle ragioni altrui, resisterò al dolore, mi dicevo.

poi… è stato troppo. ho tenuto duro, mi sono distesa nella tempesta e ho sopportato finchè ho sentito come una lama che mi squarciava e il mio cuore è andato in pezzi.

ora sono sparsa sull’orto che volevo custodire, sulla collina affacciata sul bosco di aceri e ginestre, di ginepri e roverelle, rosa canina e frassini… e mi sento come se non ci fossi più …

mi sento le radici pesanti, però… le sento piantate, sì, è come se avessero strappato insieme al vestito bianco che mi ricopriva anche brandelli di me, ma la vita mi scorre davanti e vedo ancora la valle… dilaniata, squarciata, mi sento paralizzata senza rami da scuotere eppure sono sempre dov’ero… ci sono ancora, sono qui e ricordo, sono qui e respiro, come può respirare un albero… un albero fatto a pezzi senza una ragione. spero che con i rami perduti possa nutrirsi il fuoco e dare gioia a quelli della casa che sono sempre stati gentili con me… mi dicevano che ero bella e che non mi avrebbero tagliata… non è colpa loro quello che è successo, lo so.

solo che mi sento triste perché non so se potrò tornare com’ero, se saprò ricrescere , se saprò restare…

solo una cosa so: ci proverò.

un po’ di neve…

E che dire?

ieri è venuta giù un po’ di neve… la prima dell’anno, inaspettata…

tutta la zona, come gran parte dell’appennino è senza corrente elettrica… dicono che ci stanno lavorando!

 

mi spiace per i frezeer che erano abbastanza pieni di cibo, d’altronde  cucinare e mangiare è una delle poche cose che si può fare. Per il resto… a nanna presto e niente tv, computer ecc…. per chi sta su!

quanto a me, sono venuta in città domenica sera, non che non sia caduta anche qui tanta neve, ma ora è tornato il sole e non c’è più traccia di nulla e presto anche al Casetto  tutto passerà…. vero?

autunno

E’ facile apprezzare la campagna nelle stagioni amiche.

In primavera la collina è una profusione di giallo e rosa,  ginestra e rosa canina, e il verde tenero riaccende la speranza. Poi arriva l’estate calda ed esplode di sole, l’aria di vacanza pervade lo spirito.

Quando poi, più tardi, il dovere richiama in città e il lavoro riprende, lo scenario cambia di nuovo.

Dentro e fuori.

Dentro si ha già la nostalgia delle lunghe ore di luce e del tepore avvolgente delle brezze, l’umore muta, il sonno si fa inquieto.

E anche fuori i colori cambiano, ma prima di spegnersi del tutto nel gelo invernale, regalano la loro ultima esplosione.

   Allora il giallo da oro si fa ocra, i verdi virano al sottobosco e il rosso punteggia i versanti.

E  la campagna diventa una unica tavolozza e lo sguardo si incanta in tanta bellezza.

Perfino le prime nebbie, o le nuvole che salgono dalla valle aggiungono valore al paesaggio che si stende a partire dalla terra bruna fino al cielo di una limpidezza inaspettata.

L’orto è stato rinnovato.  Ai pomodori freschi e saporiti, alle zucchine croccanti e ai peperoni si succedono le erbe e i cavoli.  Radicchi, bietole e spinaci e poi cavolo nero, cappuccio, verza, cavolfiore che preannunciano le zuppe fumanti da consumarsi davanti alla stufa con un bicchiere di vino rosso per corredo.

L’autunno.