LA PORTICINA DELLE FATE

Io credo nelle fate, lo giuro, lo giuro!

Peter Pan mi ha sempre affascinato, J.M. Barrie ha toccato corde profonde, il bambino che non voleva crescere è parte di ognuno di noi e gli fanno compagnia fate, gnomi, elfi e tutti gli abitanti dei racconti, delle favole e dei miti che sono lo specchio in cui si riflettono i nostri desideri e le nostre aspirazioni.

E sono presenze in cui confidiamo e a volte temiamo, e sono una compagnia che mai ci lascia nel nostro percorso, da fanciulli e durante il corso della vita, anche dei più scettici e dei più agnostici perché semplicemente loro ci sono – che ci si voglia credere o no…

E poiché io per prima ho bisogno di una traccia, di un suggerimento o della memoria della loro essenza, mi piace circondarmi di segni che mi ricordino quanto pure una solitudine è in realtà affollata se ci si abbandona al sogno.

Ho realizzato la prima porticina anni fa, ai piedi di un tronco, a celare una cavità che mi ispirava abitazioni nascoste, segrete, magiche… attorno ho fatto crescere un giardinetto perché tutto fosse più vero.

Ogni volta che qualche amico la scorgeva gioivo della sorpresa che gli procurava, non si può resistere quando la fantasia chiama.

Mi sono quindi più volte ripromessa di costruirne altre per condividere il fascino di questi piccoli angoli nascosti, in un giardino, in una stanza, semplicemente a ridosso di un anonimo battiscopa che si anima di meraviglia.

L’occasione è stato il compleanno di Matilde.

Le avevo mostrato la mia porticina quando era venuta con i suoi genitori a trovarmi: accompagno spesso i bimbi a vederla perché lo stupore sui loro volti mi riempie di contentezza.

Forse cinque anni sono pochi per cogliere il senso dell’incanto del saper fantasticare, ma il fantasticare è parte stessa dell’essere piccoli e i bambini non hanno bisogno di spiegazioni, loro percepiscono e sanno.

Questa la porticina che ho preparato per lei, l’ha guardata un attimo poi è tornata ai suoi giochi ma forse un giorno la vedrà e la aprirà per entrare nel suo mondo fatato.

Mi sono divertita a farla ed ho continuato…

Penso non saranno le ultime…

ho cercato un olmo

ho girato nei campi e nel bosco, ho accarezzato gli alberi, ho cercato fra tutti un olmo, per te che non tornerai, per te che non sei andato mai via

i Celti e l’albero di Natale

Ormai l’albero di Natale fa parte della nostra tradizione tanto quanto il presepe, ma se è chiaro cosa quest’ultimo rappresenti, addobbare un abete o un’altra conifera che significato ha?

La storia parte da lontano, dal ricordare la costante sovrapposizione delle feste cristiane a preesistenti feste pagane. E le feste pagane, nelle diverse religioni, sono sempre legate alle forze della natura e ad elementi astronomici.

Così il Natale, che per noi si festeggia il 25 dicembre (data ovviamente fittizia e scelta dalla Chiesa), cade appunto quando i popoli indoeuropei festeggiavano il SOLSTIZIO D’ INVERNO, cioè il momento – che si verifica tra il 21 e il 23 dicembre – in cui il sole raggiunge il punto di declinazione minima nel suo moto apparente lungo l’eclittica, in termini più pratici e più romantici: nella notte più lunga dell’anno, dopo la quale, le giornate ricominciano ad allungarsi.

E’ dunque un culto della luce, della nascita (o rinascita) del sole, fonte di vita per gli uomini.

Anche per i Celti il Natale, YULE, ricorreva il 21 dicembre e corrispondeva col solstizio d’inverno; durante questa festa addobbavano i sempreverdi (simbolo di persistenza della vita nel gelo e nell’oscurità dell’inverno) con frutti, ghirlande e altri doni (simbolo di fertilità).

E mentre faccio queste affascinanti riflessioni penso che il Casetto si trova a pochi chilometri in linea d’aria dal massiccio del monte Bibele di cui fanno parte anche il monte Tamburino e il monte Savino, tra le valli dell’Idice e dello Zena. In queste zone, pochi decenni fa, sono stati scoperti insediamenti risalenti al IV a.C., in particolare il villaggio etrusco/celtico di Pianella di monte Savino, la stipe votiva a Monte Bibele, il sepolcreto di monte Tamburino…

Vi sono dunque tracce certe, testimoniate dai reperti ritrovati in scavi archeologici non ancora del tutto terminati, e costituiti essenzialmente da sepolture nelle quali risalta preponderante l’elemento guerriero, che ci raccontano che questi territori, all’incirca nel 380 a.C., furono abitati da Galli Boi…    ed io me li immagino, in queste terre, danzare e pregare invocando la nascita del Sole bambino ed il ritorno della luce portando la fiamma per riaccendere, dopo il buio, i fuochi rituali, nei boschi di alberi inghirlandati…

autunno

E’ facile apprezzare la campagna nelle stagioni amiche.

In primavera la collina è una profusione di giallo e rosa,  ginestra e rosa canina, e il verde tenero riaccende la speranza. Poi arriva l’estate calda ed esplode di sole, l’aria di vacanza pervade lo spirito.

Quando poi, più tardi, il dovere richiama in città e il lavoro riprende, lo scenario cambia di nuovo.

Dentro e fuori.

Dentro si ha già la nostalgia delle lunghe ore di luce e del tepore avvolgente delle brezze, l’umore muta, il sonno si fa inquieto.

E anche fuori i colori cambiano, ma prima di spegnersi del tutto nel gelo invernale, regalano la loro ultima esplosione.

   Allora il giallo da oro si fa ocra, i verdi virano al sottobosco e il rosso punteggia i versanti.

E  la campagna diventa una unica tavolozza e lo sguardo si incanta in tanta bellezza.

Perfino le prime nebbie, o le nuvole che salgono dalla valle aggiungono valore al paesaggio che si stende a partire dalla terra bruna fino al cielo di una limpidezza inaspettata.

L’orto è stato rinnovato.  Ai pomodori freschi e saporiti, alle zucchine croccanti e ai peperoni si succedono le erbe e i cavoli.  Radicchi, bietole e spinaci e poi cavolo nero, cappuccio, verza, cavolfiore che preannunciano le zuppe fumanti da consumarsi davanti alla stufa con un bicchiere di vino rosso per corredo.

L’autunno.